Con questo scritto voglio onorare la memoria di mio padre, il fascista bianco: per parenti ed amici, Vittorio, per l’anagrafe, Vittorino Delli Quadri. Lo faccio perché la sua storia è molto istruttiva e può contribuire a comprendere le tante divisioni che hanno attraversato l’Italia, le città, i paesi, le famiglie e gli amici durante gli anni del dopoguerra 40-45; divisioni che, ancora oggi, ci portiamo dietro e sono fonte di sofferenza e incomprensioni.
Mio padre nacque nel 1912 da una famiglia poverissima, il padre stagnino, la madre materassaia. Si impegnò non poco per diplomarsi maestro elementare, cosa che avvenne, credo, intorno al 1930. Iniziò l’insegnamento presso le scuole dislocate nelle campagne Agnonesi. Dopo la fine della guerra e il suo reinserimento nei ruoli scolastici, si recava ancora nella scuola di ‘Semerare” sotto Sant’Onofrio, con una vecchia bicicletta su cui salivo anche io, quando mi capitava di accompagnarlo. Vi salivo quando la strada si snodava in pianura o in discesa, altrimenti…a piedi.
Mio padre non fu mai attratto, nonostante le origini poverissime, da teorie comuniste. Apprezzava quello che il fascismo stava producendo: codici civile e del lavoro, istituzione del sistema pensionistico con la creazione dell’ INPS, 40 ore settimanali di lavoro contro le 60 precedenti, impulso all’attività industriale con la creazione dell’IRI, bonifica delle paludi pontine e pugliesi, ecc… Ciononostante, non amò mai indossare la camicia nera, cosa che, invece, era abbastanza normale presso la categoria dei Maestri delle Scuole Elementari e presso famiglie altolocate del paese, quelle stesse che, nel dopoguerra, presero il potere del territorio, sotto le insegne della Democrazia Cristiana..
Allo scoppiare della guerra fu chiamato alle armi, rispose alla chiamata dello Stato e lasciò a casa una moglie e due figli, mia sorella nata nel 38 e me stesso nato nel 40. Rispondendo alla chiamata, mio padre fu assente da casa dal 1941 al 1946, salvo una licenza di 10 giorni nel 1942, ottenuta per sostenere un esame all’università, dove sperava di laurearsi. Durante la licenza concepì la figlia che sarebbe nata nell’agosto del 1943. In pratica, ho vissuto i primi 6 anni della mia vita senza mio padre.
Durante un così lungo periodo di assenza, giunsero all’attenzione di mia madre solo scarse notizie, alcune buone, una pessima, nel 1944, che, attraverso una cartolina con una gran croce nera su di essa disegnata, dava mio padre per ucciso in guerra. Ricordo perfettamente la scena di mia madre con intorno 5 o 6 degli 11 suoi fratelli e sorelle: si dava i pugni sulla pancia e urlava, urlava…..io ero attaccato alla sua gonna e avevo tanta paura.
Il 24 settembre 1945 (la guerra era finita il 25 aprile di quell’anno ma di mio padre non si avevano notizie), successe un fatto incredibile per i suoi aspetti trascendentali, a beneficio dei credenti, e per una casualità straordinaria, a beneficio dei non credenti: mia madre, entrando nel portone della sua comare, che abitava di fronte alla Tabaccheria Amicarelli, sul Corso Vittorio Emanuele di Agnone, dove adesso c’è un negozio di calzature, notò un pezzo di carta buttato li per caso non si sa da chi. Incuriosita lo raccolse; era strappato da più parti; vi si leggeva solo una frase: “………verrà suo marito la Madonna del Rosario, oppure verr…”
Mia madre, devotissima alla Madonna, vide in quelle parole un segno divino, si buttó per terra e, li per li, fece un fioretto: se mio padre fosse tornato dalla guerra, avrebbe recitato il rosaio, completo di tutte le sue poste, tutti i giorni fino alla morte.
Il 6 ottobre 1946, mentre suonavano le campane per la messa delle 11, in onore della Madonna del Rosario, mio nonno si precipitó in casa urlando come un ossesso: Vittorio é tornato, Vittorio é tornato….Si era avverata la predizione, per mia madre il miracolo.
Di li a poco la casa dove abitavamo (la casa de Chiavutielle, vicino al negozio di Ernesto Tavarozzi), si riempì di amici e parenti. Io facevo fatica a vedere il viso di mio padre, finché zio Biase (Amicarelli) mi prese in braccio e mi fece sedere sulle sue gambe. In quel momento mi sentii un re. Tutti volevano congratularsi con lui per averla scampata bella e tutti volevano racconti, ragguagli. Io reclamavo la parte di attore principale, cercando di distogliere la sua attenzione da quella gente perché desse retta a me. Purtroppo non fu così perché un’altra faccenda più importante stava per accadere. Mio padre non aveva mai visto la sua terza figlia che, oramai aveva più di tre anni. Mia madre e mia zia Loreta avevano sistemato mia sorella in una stanza attigua a quella dove eravamo. Avevano avvisato tutti di lasciar passare mio padre, ad un certo segnale, cosa che avvenne di li a poco. Rimasi di sasso quando seguendolo mi trovai la strada sbarrata. Mio padre doveva conoscere mia sorella e questo doveva avvenire con la sola presenza di mia madre. Mi sedetti per terra, sconsolato……
Negli anni successivi ho appreso la sua odissea, raccontata a spizzichi e bocconi…non era sereno quando ne parlava, si irritava, in qualche caso prendeva ad inveire, urlando a denti stretti: maledetti, mi hanno disonorato, abbandonato, maledetti … e io non capivo.
Dopo la partenza e un periodo di addestramento, alla fine del quale lo avevano promosso capitano, mio padre si trovò a girare l’Italia e, infine, nel 1943, con il suo battaglione si fermò a presidiare una zona dell’Albania.
L’8 settembre, giorno in cui l’Italia capitolò di fronte allo strapotere americano e firmò la tregua che modificava le alleanze (da amici dei tedeschi ad amici degli americani), mio padre e il suo battaglione di circa 150 uomini si trovava a cena in uno dei capannoni del campo; con loro, a cena, vi erano un ufficiale e 2 sottufficiali tedeschi. Ad un certo punto della serata, che stava svolgendosi senza problemi, i tedeschi uscirono, richiamati da un loro soldato semplice. Fu un attimo. Senza che nessuno potesse fare nulla, 5 tedeschi in tutto, dopo aver disarmato le sentinelle che erano all’esterno e messo in sicurezza le armi, sbarrarono tutte le porte del capannone e imprigionarono tutti i 150 militari italianipresenti. Mio padre capì quel comportamento solo dopo alcuni minuti, su informazione dell’ufficiale: il Re e il Governo Italiano erano scappati;era stato firmato un armistizio, per cui, da quel momento, i tedeschi erano i nemici; mio padre e i suoi 150 uomini erano, quindi, prigionieri di 5 soldati tedeschi. Loro erano stati informati; mio padre e i suoi soldati, NO; erano stati abbandonati, insieme a centinaia di migliaia di altri soldati, dallo Stato Italiano, quello stesso che li aveva chiamati alle armi e quello stesso cui loro avevano affidato la vita loro e delle loro famiglie.
Mio padre, con tutto il suo battaglione fu caricato su treni piombatie deportato in Polonia, dove fu loro prospettato o il ritorno a combattere con la Repubblica di Salò, a fianco dei tedeschi, oppure un campo di concentramento degno dei traditori. Decisero, tutti, di tornare a combattere contro l’originario nemico composto da inglesi e francesi, per “lavare l’onta di un tradimento”.
Per mio padre, rimasto imbrigliato nella tela dei tedeschi, le cose si misero molto male. Fu fatto prigioniero dagli alleati e deportato nel campo di concentramento di Coltano (Pisa), dove rimase per oltre 2 anni, di cui 1,6 oltre la fine della guerra avvenuta il 25 aprile del 1945.
Dal suo racconto, spezzettato, capivo che le sofferenze erano state atroci: in quel campo di concentramento non esistevano distinzioni: erano tutti deportati “fascisti” senza nome e senza passato, tutti “fascisti” e basta. Si consolava, mio padre, osservando un suo compagno di sventura, molto famoso che, a lume di candela, stava scrivendo quello che, oggi, il mondo letterario intero considera uno dei maggiori poemi che siano mai stati scritti. A lume di candela il grande poeta Ezra Pound stava scrivendo “I Canti Pisani”.
Quando arrivò la grazia e furono aperte le porte del campo di concentramento non fu facile raggiungere Agnone, a piedi, partendo da Coltano (500 km circa), non tanto per la distanza, quanto per i gruppi di partigiani che davano la caccia ai “fascisti”. Camminava di notte e restava nascosto di giorno. Doveva attraversare le rosse Toscana e Umbria. Fu aiutato da contadini che avevano compreso la sua tragedia, gli furono dati anche vestiti da donna, per passare inosservato in alcuni punti ritenuti più pericolosi (in quell’anno, migliaia di italiani considerati “fascisti” furono trucidati … … .. era il sangue dei vinti).
Dopo settimane di viaggio, il 6 ottobre 1946 mio padre giunse in Agnone, oltre 5 anni dopo la sua chiamata alle armi. Tornò con il marchio infame di fascista e traditore, lui che aveva risposto ad una chiamata dello Stato Italiano, e osservò, basito, altri “eroi”che avevano indossato la camicia nera, erano stati al caldo del focolare domestico e, ora, stavano per diventare potenti politici della Democrazia Cristiana.
Fu degradato da capitano a soldato semplice, fu privato del suo lavoro, lui che aveva vinto un regolare concorso. Il ruolo di maestro elementare gli fu restituito solo qualche anno dopo; nel frattempo, visse con le elemosine dei suoi parenti. Quando andò in pensione non gli furono riconosciuti gli anni in cui, chiamato dallo Stato Italiano, era stato soldato.
Ma la sua tragedia fu anche quella di trovare in me, che venivo educato dalla TV di stato, un forte criticonzo. Un giorno, durante una classica lite tra padre e figlio, gli rimproverai di aver accettato di andare in guerra e, ancora, di aver accettato di entrate nelle Repubblica di Salò. “Dovevi rifiutare” gli urlai. Non dimenticherò mai i suoi occhi di fuoco e le sue parole sferzanti: “io conosco un solo codice, quello d’onore!!! Io, chiamato dalle istituzioni, avrei dovuto disertare? Piuttosto la morte che sentire su di me il marchio infamante del Disertore.”
“Va bene – risposi – ma perché la Repubblica di Salò” La sua risposta mi colpì allo stomaco, forte, ruvida, graffiante: “C’eri tu con me mentre, abbandonato dallo Stato, mi caricavano su un carro merci piombato, facendomi sentire tutta l’umiliazione del disonore per il comportamento dei miei governanti che s’erano dati alla macchia lasciando allo sbando migliaia di giovani? C’eri tu con me quando, per difendermi, mettevo mano al fucile e non sapevo se la pallottola in canna fosse buona o fasulla, dal momento che avevo gia sperimentato come, a causa di sabotaggio di miei connazionali, esse erano, al 50%, fabbricate con segatura? C’eri tu con me quando marcivo nel fango e nel disonore in un campo di concentramento polacco e non avevo una notizia, una, della mia famiglia, di mia moglie e dei miei figli? C’eri? c’eri? c’eri?”
Così urlando batteva il pugno sul tavolo, il volto congestionato, la testa rivolta a chissà quali altri avvenimenti, gli occhi umidi e il terrore, rivissuto, del disonore. Perché il tutto si racchiudeva in quella parola: ONORE. Lui soldato, con altri milioni di soldati, aveva vissuto una umiliazione cocente che poteva e doveva essere riscattata solo combattendo, anche a costo della vita. Quella ferita, apertasi l’8 settembre del 1943, non sarebbe mai stata sanata.
Dopo la guerra, aderì, come tutti gli ex combattenti, all’MSI, Movimento Sociale Italiano, di Michelini, prima, e di Almirante, poi. Era diventato, con altri pochi paesani, il fascista del paese, dove i veri fascisti della pre-guerra erano diventati quasi tutti democristiani. Non volle mai votare per loro, per il disprezzo che provava nei loro confronti; non volle mai votare per la sinistra, sentendosi mille volte lontano dalla ideologia comunista.
Pensando che troppi erano stati i torti subiti dalla sua famiglia, appena ebbe nelle mani il mio titolo di studio di laureato in economia, ottenuto con i suoi sacrifici più che con miei meriti, chiese che l’incarico libero di Amministrativo presso l’ospedale civile di Agnone mi fosse dato in virtù dei miei studi. Fu umiliato: al mio posto fu scelto un laureato in scienze politiche. Quando, per evitare le angherie da lui subite potessero coinvolgere anche me, mi procuró un colloquio a Torino. Quando partii per il mio lungo viaggio in giro per il mondo (9 aziende e 14 traslochi) vidi mio padre piangere come un bambino. Mai e poi mai lo avevamo visto piangere. Mi dissero che il suo sconforto durò a lungo. Se la prese con tutto e tutti. Non capiva perché mai dovesse ancora pagare un prezzo così alto.
Ma non gioí mai per le disgrazie dei suoi avversari politici, mai; e non gioì neanche quando, alla fine degli anni 80, il mondo assistette alla rovinosa caduta del comunismo. Ricordo, in proposito, che, ascoltando la notizia data dalla TV, non alzò le braccia al cielo in segno di rivincita morale, ma ebbe solo un moto di pietà: sollevò appena la testa, la scosse e, pensando, a russi, polacchi, cecoslovacchi, sovietici in generale, disse: poveretti, quanto devono aver sofferto!
Mio padre, nel suo lungo percorso scolastico, ha educato circa 200 ragazzi, con sistemi innovativi all’epoca molto apprezzati (per esempio, insegnò l’alfabetizzazione attraverso l’approccio diretto alla parola, senza passare, come si usava allora, per la conoscenza delle singole lettere dell’ alfabeto, costruì, con le sue mani (e le mie) una cartina dell’Italia tridimensionale in gesso, dotata di un sistema di fili elettrici, nascosti nel sottofondo, che insegnavano a localizzare la posizione delle città italiane; ecc… …).
Da nessuno dei suoi alunni, che ho conosciuto, ho mai sentito una parola che non fosse di stima e rispetto. Nessuno riscontrò mai in lui i caratteri di autoritarismo, aggressività, violenza, in una parola, il carattere tipico del fascista. Lo ricordano, ancora oggi, a quasi 20 anni dalla sua morte, con affetto e, a volte, con commozione.
Con Giuseppe Delli Quadri, suo direttore didattico, padre di Maria e Flora Delli Quadri, fu collega e amico. La stima e l’affetto furono reciproci. Furono avversari politici, ma non finirono mai di volersi bene, ognuno riconoscendo le ragioni dell’altro. Le loro figlie Flora e Assuntasono state amiche del cuore, in gioventù, e ancora oggi, pur a centinaia di km. di distanza, conservano un caro rapporto. Io, poi, mi ritrovo con Flora e Maria Delli Quadri, fianco a fianco, a difendere le ragioni dell’ALTOSANNIO-ALMOSASA.