Questo racconto è della dottoressa Giuseppina Citarella di Roma, medico volontario dell'Associazione Medici per i diritti Umani (MEDU)
"Una serata come tante…tra gli ultimi degli ultimi
Come svolto su via Marsala cerco con lo sguardo il nostro camper, lo vedo, come sempre il nostro fantastico autista, Mario, è puntuale e sta iniziando a sistemare il tavolino che useranno i volontari per la prima intervista. Mi faccio strada tra viaggiatori che trascinano distrattamente i loro bagagli con una mano e un cellulare nell’altra, tra le auto in sosta vietata, i tassisti che velocemente caricano valigie e fanno accomodare i clienti..
Chi verrà stasera a farsi visitare? Tornerà qualcuno che già conosciamo? Saranno in tanti ? Magari sono già lì, mi affretto…
Alcuni volontari sono già arrivati, preparano le schede che, una volta compilate in totale anonimato, arriveranno a noi medici sul camper..Domande semplici, a cui risponderanno solo se vogliono, che già troppe violenze e imposizioni hanno subito:. da dove vengono, quanto tempo è durato il viaggio e che paesi hanno attraversato, quanti anni hanno, da quanto tempo sono in Italia, da dove sono entrati, se è la prima volta che ricorrono alle nostre cure, dove dormono, se e quali documenti hanno. Certo c’è il problema della lingua.. alcuni parlano un po’ di italiano, altri inglese o francese, per altri è assolutamente necessario l’intervento del nostro fantastico mediatore culturale… perdonatemi se chiamo tutti i volontari fantastici ma, credetemi, lo sono davvero per sensibilità, disponibilità, empatia, competenza e potrei continuare…
Si distribuiscono i numeri, in genere una dozzina, più che altro per avere un ordine per le visite, che, anche se si va oltre il programmato, si visitano sempre tutti quelli che si presentano.
La nostra presenza è garantita tra le 19 e le 22 in inverno e un po’ più tardi in estate., ma difficilmente smontiamo prima delle 22.30.Il tempo passa velocemente tra una visita e un racconto tra un emergenza sanitaria e una logistica.
Sì, anche logistica, perché molte delle associazioni che si occupano di persone in stato di bisogno o di disagio sociale, che siano migranti richiedenti asilo o cittadini italianissimi o comunque comunitari, lavorano insieme, cercando soluzioni a tutti i livelli. Se noi visitiamo qualcuno in particolare stato di fragilità e senza dimora, ci attiviamo con le associazioni che specificatamente si occupano di questo aspetto e viceversa… siamo, come dire, una rete.. e siamo in tanti! Le mie primissime volte mi sentivo impotente: che senso ha, mi dicevo, dare antinfiammatori e antidolorifici per, che so, una sciatalgia piuttosto che una faringotracheite se poi dovevi saltare l’altra parte, importantissima peraltro, della prescrizione medica, ossia il riposo a letto? Perché sai che letto non ne hanno e dormiranno avvolti in una coperta sotto la pensilina della stazione. Che senso ha dare un farmaco per una gastrite se sai che non puoi prescrivere nessuna dieta perché mangeranno un panino o qualunque altra cosa porteranno loro i volontari del Baobab o della Caritas?
Certo è pur vero che i casi più impegnativi si possono avviare a strutture adeguate attive presso la Comunità di Sant’Egidio, gli ambulatori della Caritas o l’Ospedale San Gallicano.
Mi sono resa conto ben presto però che non è questa la cosa più importante. Certo, vengono per essere curati ma non solo, anzi…ciò che li porta da noi prima di tutto è il bisogno di SENTIRSI RICONOSCIUTI NELLA LORO UMANITA’ COME PERSONE, ESSERE TRATTATI COME ESSERI UMANI E NON COME COSE, COME SCARTI FASTIDIOSI, PERICOLOSI, INUTILI, E MEGLIO, MOLTO MEGLIO SE INVISIBILI.
Ecco il motivo principe che li porta al nostro Camper, che li fa aspettare fuori al freddo il loro turno, che li fa tornare solo per salutarci o per lamentarsi che altrove non si sono sentiti accolti come da noi, o per accompagnare un amico, un temporaneo compagno di strada. É per questo, per essere accolti da uno sguardo empatico, da un sorriso, da qualcuno che si protende verso di loro guardandoli bene in faccia e chieda quanto più gentilmente è possibile: ciao come stai? Come va? cosa c’è che non va? Cosa possiamo fare per te? Racconta…
E, passato il primo momento di imbarazzo, raccontano e si fanno visitare e non vorrebbero più andar via, con tatto, con gentilezza, devi ricordar loro che ci sono altri in attesa; allora si rivestono piano, ripetono più volte la prescrizione medica per essere certi di aver capito bene, assicurano che torneranno per dirci come stanno e alla fine controvoglia scendono
La loro breve parentesi di umanità è finita, ora tornano fuori, esposti a sguardi indifferenti od ostili, a tutte le intemperie, non solo fisiche, tornano alla violenza della strada, ai ricordi, a orrori passati che abitano i loro sonni senza riposo. Ma intanto qui, anche se solo per poco, si sono sentiti accolti, riconosciuti, rispettati... una boccata d’ossigeno per chi rischia quotidianamente di annegare, perché non si muore solo in mare, anche l’indifferenza uccide.
E allora sì, ha un senso essere qui, anche se hai pochi farmaci a disposizione, anche se il camper è vecchio e ci fa freddo quasi come fuori, anche se sai che poi torneranno a dormire in strada o in una tenda di fortuna, che non sanno cosa faranno domani e dove andranno, se i sospirati documenti arriveranno, se le notizie da casa saranno buone, se potranno raggiungere qualche parente fuori dall’Italia. Se, se, se…
Ma intanto stasera, anche se solo per poco, sono state persone e tanto basta. Se ne vanno tutti ringraziandoci con un sorriso: in mano uno zaino, i più fortunati, una cartella o una semplice busta di plastica di quelle dei supermercati gli altri, con la loro vita dentro: documenti, improbabili pezzi di carta dove qualcuno ha scritto per loro un indirizzo, un numero di telefono, un kit di sopravvivenza con un cambio di biancheria intima e uno spazzolino da denti, una ricetta medica, magari un foglio di dimissioni se sono stati in ospedale, nell’altra mano il cellulare. E già, ma insomma, .stanno tutti con i cellulari in mano questi, quante volte lo sentiamo dire, come per stigmatizzare una colpa, un lusso inaccettabile per chi deve essere privo di tutto se vuole suscitare un po’ di compassione. Certo, il cellulare per queste persone è vita... è il filo rosso che unisce il loro passato, le notizie da casa, il loro futuro, chi li aspetta in altri Paesi d’Europa, e il presente, un amico che li avverte di una possibilità di lavoro o la questura da chiamare per chiedere di documenti o di comparizioni, le varie associazione di volontariato che li contattano per dire che c’è un posto letto dove dormire o che una visita specialistica è stata prenotata…
É così che li vedo andar via nella notte e ciò che più di tutto mi stringe il cuore è quella busta di plastica con dentro tutta una vita."
*tutti i nomi in questo articolo sono di fantasia