Durante un dibattito su La 7, qualche sera fa, il Ministro La Russa, disputava con alcuni contestatori della riforma Gelmini, dicendo loro più volte: “E i soldi (per evitare i tagli) dove li trovate?”.
Precisando che – in linea di principio - la questione posta dal Ministro è sacrosanta, mi permetto di aprirgli occhi, suggerendogli dove trovare i soldi: nella pletora di rappresentanze politiche del tutto superflue che abbondano in Italia: 20 Regioni (che potrebbero essere ridotte almeno a 10), decine di Province (che potrebbero essere abolite tutte!), centinaia di Comunità Montane e Unioni Comunali (che avrebbero ragione di rimanere solo se sostituissero le province). Tutto questo costa allo Stato – cioè ai cittadini – centinaia di milioni annui che potrebbero essere utilizzati per migliori servizi e impulsi salutari all’economia produttiva, e per attenuare il debito pubblico!
Si prenda il caso della mia regione natale, il Molise.
Nacque per presuntuosa secessione dagli Abruzzi nel 1963. Oggi si è ampiamente e lungamente dimostrata del tutto inutile ai cittadini, per i quali non si riesce a stanziare una minima somma che ne promuova il miglioramento economico. Con 300.000 abitanti (quanto quelli di un quartiere di Milano), il suo apparato politico costa in media 130 milioni annui (più di quello della Lombardia che ha 10 milioni di abitanti). In questo momento si stanno chiudendo gli ospedali molisani appunto per il famoso refrain “non ci sono soldi”. Risparmiando quei 130 milioni, e sopprimendo l’inutile apparato politico-amministrativo, si potrebbero – ad esempio – mantenere 5 o 6 ospedali. Basterebbe decidere di tornare a far parte degli Abruzzi, e farsi amministrare il territorio da Pescara (che sta a due passi).
Ogni volta che un regime superato dalle evoluzioni economico-tecnologiche perdura e resiste, si genera ritardo nello sviluppo e povertà.
Ad esempio, perché già nel 1830 Inghilterra e Stati Uniti erano le nazioni più prospere dell’Occidente? Perché non avevano regimi legati alla vecchia aristocrazia agraria, e i loro governi seguivano e favorivano gli interessi dell’industria, ossia del nuovo sistema di produzione del benessere. L’Inghilterra s’era liberata del potere aristocratico-agrario nel 1688 e gli Stati Uniti non lo avevano mai avuto, essendo “terra nuova” dove tutti partivano alla pari. Là dove invece quei regimi perduravano resistendo – naturalmente – alla prospettiva di cedere il potere – come in Francia, in Italia e in Spagna – l’economia languiva e la povertà avanzava. Per inciso, a dare la spallata decisiva per l’Unità d’Italia fu la borghesia produttiva, che esigeva un grande mercato unico, a dispetto della vecchia classe burocratico-politicante, fatta di individui che preferivano essere “qualcuno” nei piccoli Stati pre-unitari, piuttosto che normali cittadini nella grande Italia.
Oggi abbiamo istituzioni datate 1946. Quelle pletoriche e sovrabbondanti che ho descritto sopra. Quando questa macchina burocratico-amministrativa nacque, essa risultava necessaria: le comunicazioni erano scarsissime e bisognava favorire il contatto con le rappresentanze, attraverso la riduzione delle distanze geografiche e la moltiplicazione delle sedi del comando politico. Oggi, con una webcam, si può parlare con un assessore lontano centinaia di chilometri, senza spostarsi di un metro.
Quando nel 1987 ero contrattista alla CEE, a Bruxelles, Alfred Romus,che dirigeva il Dipartimento Regioni d’Europa, già prevedeva la possibilità – e dunque la necessità – di andare verso regioni di milioni di abitanti. Già, perché quando una facilitazione tecnologica diventa possibile, immediatamente dopo diventa pure indispensabile. Facciamo un esempio: quanti di noi hanno resistito quando cominciarono a circolare i cellulari? Io mi rifiutai a lungo di accettare l’idea opprimente di poter essere raggiunto dovunque. Ma, dopo un po’ mi accorsi che quell’autoesclusione mi impediva la partecipazione a tutta una serie di comunicazioni su cui si andava modellando lo stesso ambiente del lavoro. Dunque, il cellulare diveniva indispensabile. Cinquant’anni fa l’ Italia era una potenza industriale in sviluppo; aveva eccedenze economiche per poter creare regioni fatte “a cappello di prete” come il Molise, programmando di mantenerle in eterno, anche se andavano in rosso. Oggi esiste la Cina, esiste l’India, esiste una concorrenza internazionale che ha sorpreso e stravolto gli assetti economici dell’Occidente intero. Non ci possiamo permettere di mantenere quegli apparati politici inutili. Ecco perché “non troviamo i soldi” per la scuola e per la sanità: perché non abbiamo operato in tempo le trasformazioni di adeguamento.
Perché non si parla di riduzione degli enti politici? E’ facile rispondere: perché una parte esigua della nostra classe dirigente pretende di dedicarsi alla politica come fonte di reddito. E non c’è posto per tutti. Invece di fare i medici, gli ingegneri, i bancari e i professori, troppi pretendono di fare i consiglieri e gli assessori di “qualcosa”. Mantenuti dai cittadini. Pochi sono quelli che potrebbero affrontare – nello specifico - la sfida di candidarsi in entità regionali più ampie. Molti pretendono di continuare a diventare consiglieri regionali con 800 voti. Ora, fino a una ventina di anni fa, i partiti avevano anche il diritto di chiedere certi sacrifici ai cittadini, perché rappresentavano realmente la base della vita democratica, e la cinghia di trasmissione tra lo Stato e la società civile. Oggi le sedi dei partiti sono vuote; ci bazzicano solo quelli che poi saranno candidati. E’ praticamente scomparsa la figura del “militante” , quello che consuma tempo ed energia per il puro ideale (me ne dolgo, ma è così). Dunque la “politica” non ha più alcun diritto di chiedere al Popolo di essere mantenuta in eccesso. Lo stridore di queste discrasie ha una portata storica. Se non ci si affretta, l’intera struttura collasserà!